gruppo scultoreo, Mioni Domenico detto Domenico da Tolmezzo, XVI

Oggetto
gruppo scultoreo
Soggetto
san Martino dona parte del mantello al povero
Cronologia
1500 - 1507 ante
Misure
cm - altezza 80, larghezza 100, profondità 50
Codice scheda
OA_5950
Collocazione
Ovaro (UD), Cella
ex Latteria Sociale Agrons-Cella
Museo della Pieve di Gorto

Il gruppo scultoreo a tutto tondo presenta secondo l'iconografia tradizionale il santo a cavallo mentre si accinge a tagliare con la spada il mantello che gli scende dalle spalle per donarlo al mendico.

Il gruppo scultoreo della Carità di san Martino era posto in origine sull'altare maggiore della chiesa di San Martino di Ovaro, dove era affiancato da due dipinti su cuoio. Trasferito nella Pieve di Santa Maria di Gorto nei primi anni sessanta del Novecento, esso sfuggì in tal modo al furto che di lì a poco avrebbe spogliato l'altare di tutti i suoi elementi decorativi ed è attualmente conservato nel Museo della Pieve. Domenico da Tolmezzo raffigura nell'opera l'episodio più celebre e noto della vita del santo: questi, giovanissimo catecumeno, in un rigido giorno invernale incontrò presso la porta della città di Amien un povero nudo tremante per il freddo e, riconoscendo in esso il Cristo, mise in pratica il precetto evangelico (Matteo, 25, 35-40) dividendo misericordiosamente con lui il suo mantello. La scultura di Ovaro fu resa nota nel 1956 da Marchetti e Nicoletti che, ponendola a confronto con l'analogo tema svolto da Domenico per la chiesa di Pelos di Vigo di Cadore e con la replica parzialmente mutila allora conservata in collezione privata a Udine, la ritennero "lavoro d'un diligente ma fiacco imitatore, che arrotonda, leviga le forme e le sfibra d’ogni energia plastica nell'intento di ingentilirle". Il severo giudizio sull'opera, ribadito da Marchetti (1961) e Nicoletti (1969) e ripreso dalla Terenzani (1972-1973), fu certamente dettato in buona misura dalle condizioni di conservazione ed è all'origine della sua scarsa fortuna critica. La rimozione delle grossolane ridipinture che la ricoprivano completamente, condotta in occasione del restauro eseguito tra il 1981 e il 1982, consentì il recupero della raffinata policromia originale della scultura mettendone in luce al contempo la fine qualità dell'intaglio (Bonelli 1983). Essa poté dunque essere reintegrata a pieno titolo tra le opere autografe di Domenico nel catalogo della mostra dedicata alla scultura lignea friulana allestita presso la Villa Manin di Passariano dove fu esposta (Rizzi 1983). Il gruppo di Pelos, con il quale quello in esame è stato a lungo posto sfavorevolmente a confronto, non più direttamente giudicabile a causa di un furto, è forse l'opera più monumentale di Domenico, nella quale si avverte un respiro rinascimentale che sottende il riferimento a modelli che travalicano l'ambito friulano. Se ne avvedeva Fiocco (1951-1952, p. 10) in occasione della pubblicazione della scultura, erroneamente attribuita a Giovanni Martini, rilevando in essa "la cognizione del Gattamelata". Se si accoglie la proposta di un soggiorno veneziano di Domenico suggerita da Marchetti (1961; 1962), la conoscenza diretta del monumento equestre padovano di Donatello pare plausibile. Per la realizzazione del suo destriero il maestro toscano aveva tenuto conto a sua volta del modello della quadriga della basilica di San Marco a Venezia, alla quale aveva certamente guardato anche lo scultore che eseguì il monumento equestre ligneo di Paolo Savelli, morto nel 1405, posto sopra la tomba del condottiero romano nella basilica veneziana di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Il cavallo di quest'ultimo presenta un'andatura analoga a quello di Domenico, ma all'esempio donatelliano rimanda la soluzione di far poggiare la zampa sollevata su un rialzo del terreno, in sostituzione della palla di cannone inadatta al soggetto. Rispetto al gruppo di Pelos, saldamente costruito su calibrati rapporti proporzionali e volumetrici, le figure di Ovaro, pensate per una visone a tutto tondo e accampate nello spazio con una inedita libertà di movimento, paiono appartenere ad una dimensione più intima e raccolta. Il mendico, amorevolmente descritto nella sua commovente nudità, già si avvolge nel manto che Martino ha fatto scivolare dalle sue spalle e si accinge a tagliare con la spada. Più che in qualunque altra opera di Domenico, che nelle sue ancone allinea teorie di santi concentrati in se stessi in una sorta di "misteriosa imperturbabilità" (Bergamini 1988), tra i protagonisti della narrazione sembra potersi allacciare un'intima comunione: il povero si rivolge riconoscente verso il giovane santo che abbassa gli occhi su di lui e, nel contempo, sui fedeli ai quali l'aveva reso particolarmente caro il suo gesto di carità. La datazione intorno al 1500 avanzata per il san Martino di Pelos da Marchetti e Nicoletti (1956), sulla base del confronto con le figure dell'ancona realizzata intorno a quella data da Domenico per la chiesa parrocchiale di Forni di Sopra, è stata giustamente estesa da Bonelli (1983) anche alla scultura in esame. Le forme morbide e piene delle figure, nelle quali appaiono completamente superate talune asprezze visibili nelle opere precedenti soprattutto nel frangersi acuto delle pieghe, di ascendenza nordica, trova riscontro nei santi del polittico, mentre Martino è tipologicamente assai vicino, in particolare, ai santi delle nicchie laterali del secondo registro. La Carità di San Martino di Ovaro appartiene dunque all'attività tarda del maestro, spentosi nel 1507, che in essa seppe infondere quell'afflato poetico e di umanissima dolcezza che è uno dei suoi caratteri distintivi e uno dei segreti del suo fascino senza tempo.

BIBLIOGRAFIA

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