in alto a sinistra: Carlo Sbisà/ 1926
Sono raffigurate due donne in atteggiamento intimo e confidenziale colte in un interno. La figura a sinistra ha capelli raccolti neri e indossa un abito rosa antico. Ha lo sguardo rivolto verso il riguardante e si porta la mano sinistra al petto. Sulla mano destra, che poggia in grembo, è posata quella dell'altra donna, la quale è a destra della composizione ed interamente in ombra. Questa donna indossa un abito blu con camicia bianca e porta capelli neri raccolti. Il suo volto è leggermente nascosto da quello dell'altra effigiata. Le due donne sono entrambe sedute. In basso a sinistra sono dipinti un libro chiuso e due fiori bianchi. Fa da quinta a sinistra un tendaggio ocra con righe verticali marroni e azzurre. Sullo sfondo vi è una finestra da cui s'intravede un paesaggio e a destra un'apertura ad arco da cui inizia una scalinata.
Esposto alla Biennale di Venezia del 1926, il dipinto fu donato dall’artista al Museo della Redenzione di Gorizia nel 1935, in occasione dell’allestimento delle sale in memoria di Sofronio Pocarini. Ambientato in un sobrio interno, esemplare dell’architettura del classicismo novecentista ed in seguito ripreso nello sfondo di altre opere, come la Venere della Scaletta del Museo Revoltella di Trieste, il doppio ritratto qui esaminato coglie l’atteggiamento intimo e confidenziale delle due donne, rese con un afflato poetico ed una vibrazione intimista che traspone in termini laici il tema della “sacra conversazione” dell’iconografia religiosa del Rinascimento italiano. Una intimità dialogante rivissuta nella contemporaneità che, recuperando anche una certa atmosfera “nazarena”, crea una nuova oggettività languida e sospesa, assimilabile alla metafisica del quotidiano dei pittori del Novecento italiano. Il colore, raffinato e corposo, appare applicato in stesure lente e meditate e si rivela debitore di certe soluzioni pittoriche prossime ai modi di Felice Carena, conosciuto da Sbisà durante gli anni fiorentini (1919-1928), dopo il trasferimento del torinese nella città medicea (1924) per assumere la cattedra di pittura alla locale Accademia di Belle Arti. Il dipinto, lodato dalla critica coeva per il suo realismo (Marini 1935), annuncia piuttosto l’adesione dell’artista alla poetica novecentista e al classicismo inteso come riconquista di un’arte intelligibile, rispecchiante un nuovo umanesimo all’insegna di una visione neoplatonica del mondo. Dopo aver frequentato per un anno l’Istituto Tecnico di Trieste, Carlo Sbisà abbandonò la scuola entrando come cesellatore nella bottega Janesich, l’oreficeria più nota della città giuliana. Diciottenne si trasferì a Budapest come disegnatore tecnico presso un cantiere e, nel 1919, ottenuta una borsa di studio per l’accademia di Belle Arti di Firenze, si trasferì nella città medicea dove rimase fino al 1928. Abbandonata dopo soli due anni l’Accademia, Sbisà, con gli amici Carena, Oppi e Funi, divenne fautore di un ritorno agli ideali del classicismo cinquecentesco. Nel 1928 ritornò a Trieste, dove tenne la sua prima mostra personale alla Galleria Michelazzi con la prestigiosa presentazione di Italo Svevo. Alla fine dello stesso anno si trasferì a Milano, dove rimase fino al 1932, per partecipare alla Seconda Mostra del Novecento Italiano, tenutasi nel Palazzo della Permanente nel 1929, e divenire una delle figure emergenti del movimento sostenuto da Margherita Sarfatti. Nel 1932 ritornò definitivamente nella città natale iniziando a dedicarsi ad opere di decorazione murale, attività cui si indirizzerà quasi interamente sino agli anni quaranta (chiesetta dell’Ospedale Psichiatrico, Sala d’Onore del Museo del Risorgimento, Casa del Combattente, Galleria Protti e numerosi altri edifici civili). Negli affreschi triestini di Sbisà le citazioni classiche ed il recupero della tradizione rinascimentale si coniugano alla preziosità coloristica ed alla ricerca di pulizia formale, costituendo una tappa fondamentale del percorso dell’artista. Nel secondo dopoguerra, Sbisà fu chiamato a far parte del Curatorio del Civico Museo Revoltella, impegnandosi attivamente anche nell’insegnamento nella Scuola Libera del Nudo annessa al museo. In questo periodo privilegiò la scultura rispetto alla pittura dedicandosi alla lavorazione di materiali come la ceramica, la terracotta, il bronzo per approdare ad un linguaggio espressivo di matrice astratta. Fu presente con opere in scultura alle Biennali di Venezia del 1948 e del 1950 (dal 1922 al 1936 aveva partecipato alle rassegne veneziane con opere grafiche e pittoriche). Risalgono a questi anni anche molti interventi decorativi per interni navali ed opere di arte sacra per chiese triestine o della provincia. (DELNERI 2007, p. 208)
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