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in basso a destra: MUSIC 79
Composizione che evoca un paesaggio roccioso dalle forme irregolari sui toni marroni e beige. Quasi tutta la tela è occupata da un'altura brulla, tondeggiante, cosparsa di massi rocciosi. La terra è chiara, quasi rosata, le rocce quali grigie, biancastre, quali brune, via via più scure a mano a mano che si sale verso l'alto. Il cielo, d'un grigio uniforme, è privo di profondità e, più che evocare lo spazio, lo nega, spingendo l'occhio a soffermarsi e a fermarsi all'arida realtà delle rocce in primo piano.
Questo dipinto appartiene al ciclo dei “Paesaggi rocciosi” cui Music si dedicò tra il 1977 e il 1980 e che Jean Leymarie (Introduzione, in Music, opere 1946-1985, catalogo della mostra al Museo Correr di Venezia, Milano 1985) considerava “tra i gioielli della sua opera, dove felicemente si uniscono in uno stile variato la precisione della forma e la magia della luce”. Sono le rocce delle Dolomiti che, continuava Leymarie, “offrono rifugio e consolazione. Oggi, come nella sua infanzia, Music ama isolarsi tra le pietre che gli sono amiche e guardare se stesso in silenzio, come egli dice, nello specchio di un paesaggio nel quale si identifica. Queste concrezioni misteriose, attorno a lui, che costituiscono l’ossatura dell’uomo e la base del suolo, racchiudono i segreti immutabili e l’ordine originario della creazione”. Di fronte a questi paesaggi Roberto Tassi (Sulle colline di Music, in Zoran Music, catalogo della mostra al Palazzo Reale di Milano, Milano 1992) ripercorreva il procedimento di Music osservando che l’artista ritagliava dalla grandiosa cornice dolomitica particolari, frammenti di visione, forme rocciose rovinate dalla montagna e dipinte “senza prospettiva, con un fondo di cielo non contenente spazio, ma solo sceso a chiudere l’orizzonte con una grigia, cilestina, leggera, quasi evanescente, uniforme parete; dipinge le rocce cadute, i frammenti della montagna, i raduni di pietre, come cimiteri irregolari e primitivi, come ossa affioranti dalla terra; l’orizzonte e lo spazio sono ridotti, limitati, ma contengono una essenza, un frammento dissolto e concentrato, di questa sublimità e immensità propria della montagna”. A seguito dello scoppio della Grande guerra, nel 1915, la famiglia Music abbandonò Gorizia e si trasferì in Stiria; alla fine del conflitto il padre, che era direttore didattico, venne trasferito a Völkermarkt, in Carinzia, dove Zoran compì gli studi liceali conclusi poi a Maribor, nella Stiria slovena. Dopo brevi soggiorni a Vienna e a Praga, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti a Zagabria (1930 – 1934) seguendo le lezioni di Babič che, già allievo di Von Stuck a Monaco, era il più noto pittore croato. Terminata l’Accademia vinse una borsa di studio biennale a Madrid dove ebbe modo di conoscere le opere di Goya, Velázquez e di El Greco; lo scoppio della guerra civile spagnola nel 1936 lo costrinse a rientrare nella terra natale dove continuò a studiare per conto proprio trascorrendo lunghi periodi in Istria ed in Dalmazia, terre cui si sentiva intimamente legato e da cui traeva ispirazione. La seconda Guerra mondiale riportò Music a Gorizia dove eseguì una Via Crucis per la chiesa di Gradno (Slovenia) e collaborò con il triestino August Černigoj nella realizzazione degli affreschi a tempera del santuario di Draznica (Slovenia). A Trieste espose alla Galleria Decrescenzio (1943) e conobbe Guido Cadorin, grande amico del suo maestro Babič, che gli fece scoprire Venezia dove, nel 1944, tenne una personale alla Piccola Galleria di Roberto Nonveiller, corredata da un catalogo con l’introduzione di Filippo de Pisis. Nell’ottobre 1944 fu arrestato dai tedeschi a Venezia ed internato a Dachau, dove in un “quotidiano paesaggio di morti” trascorse il periodo più tragico della sua vita. Liberato nell’aprile del 1945, Music sostava a Gorizia per recuperare le forze e, in settembre, ritornava a Venezia portando con sé un rotolo di disegni eseguiti nel campo di concentramento che costituivano la viva memoria di un’esperienza indelebile dell’anima. Il sostegno della famiglia Cadorin lo aiutò a riprendere l’attività pittorica e, nella seconda metà degli anni quaranta, incominciò ad esporre dapprima a Venezia, poi a Roma, Ginevra e Zurigo. Nel 1951 vinse a Cortina d’Ampezzo il “Premio Parigi” e l’anno successivo si stabilì nella capitale francese. Per l’artista iniziava la stagione del successo internazionale che lo faceva conoscere come il delicato e sognante pittore dei “cavallini” e degli “asinelli dalmati”, dei paesaggi senesi, dei favolosi scorci di Venezia e della laguna. Nel 1970 avvenne la svolta e nella pittura del maestro irruppero i tragici giorni della prigionia che divennero le icone del ciclo “Non siamo gli ultimi” dedicato alle vittime di Dachau. Con esemplare coerenza nei decenni successivi Musič proseguì una meditazione esistenziale da cui sortirono opere struggenti come la serie di ritratti della moglie Ida, gli autoritratti, le piccole nature morte, le cattedrali, la basilica di San Marco, la Parigi notturna ed i fantomatici atelier. Negli ultimi dipinti, la straordinaria serie di “autoritratti” e ritratti con Ida, le figure si sfocano divenendo spettrali, quasi il rispecchiamento del dissolversi della vita che lascia solo una labile traccia sulla tela priva di preparazione. (DELNERI 2007, p. 192)
Delneri A., Schede, in La Pinacoteca dei Musei Provinciali di Gorizia, Vicenza 2007
Bradaschia G., Andiamo insieme a visitare i Musei Provinciali di Gorizia, Gorizia 1980