in basso sulla terracotta sinistra: Ermacora
In basso sulla ceramica destra: Ermacora/97
L'opera è divisa in due parti simmetriche e complementari: a sinistra dei pannelli in lamiera di ferro con tagli e inserzioni di oro bizantino indicano la parte cristiana di Mostar, a destra i pannelli in ferro dipinto di nero presentano il colletto di un Mufti a simboleggiare la parte islamica della città. I due pannelli recano tracce di ponti e di segni razionali, terminano simmetricamente al centro con due elementi di terracotta con tagli ed esplosioni della materia. La parte ceramica simboleggia la guerra, il ponte distrutto che con il vuoto a metà non riesce più a mettere in comunicazione le due etnie. L'opera è divisa in due parti simmetriche e complementari.
Lo stesso Ermacora mi ha raccontato la genesi dell'opera: fin da quando era in collegio in Piemonte era rimasto colpito dal ponte di Mostar visto in una immagine in bianco e nero su di un Atlante De Agostini. Il ponte a schiena d'asino congiungeva le due rive della Neretva ed era simbolo dell'integrazione etnica e della tolleranza religiosa. Anni dopo quando seppe che il ponte era stato distrutto dall'artiglieria croata, Ermacora ne rimase fortemente colpito e decise di eseguire quest'opera. Ermacora era stato colpito anche dalla guerra in Jugoslavia anche perché nella sua scuola molti erano i ragazzi profughi dalla ex Jugoslavia, e quindi le guerre balcaniche avevano avuto una risonanza particolare nell'ambiente artistico udinese. Il ponte di Mostar del 1997 è contemporaneo ad altre steli dedicate alle vittime, soprattutto civili, di Mostar, invitando a guardare in alto per esprimere la domanda dell'uomo sul senso della vita e della morte (Bartolini, 2000, p.7). Il Ponte di Mostar, esposto a Venzone nel 1997 e più volte ripresentato, è certamente l'opera più importante dello scultore. Ermacora a Venzone prese la vicenda di Mostar come emblema dell'infelicità attuale, presentando sculture a forma di disco e quadrati, forme razionali, sconvolte da esplosioni e lacerazioni, che senza modificare il perimetro ne sconvolgono le superfici a testimoniare la violenza della guerra. Scrive Maniacco (1997, 15 ) che il ponte di Mostar è uno dei temi di Ermacora "comparirà come un assillo anche in altri lavori, magari solo come un frammento d'arco di compasso appena tracciato sulla lamiera". La terracotta tormentata, modellata, tagliata, estroflessa come nelle esplosioni di una guerra, che ne annerisce le superfici, è accostata alla lamiera sagomata, dalle superfici rigide. Le due realtà di Mostar vengono affrontate separate dal vuoto dello spazio creato dalla distruzione del ponte. Sull'opera scrive Perissinotto (1997, 30-31) "Ermacora non si è proposto di raffigurare l'attuale condizione d ella città bosniaca: la sua è una riflessione sulle conseguenze del comportamento umano e sulle prospettive future." I due rettangoli si dispongono simmetricamente " a sinistra come a destra, i mattoni sono deformate tracce della contesa "e il ferro è annerito dalle esplosioni, lasciando tracce anche nelle terrecotte. Queste sono lette da Perissinotto come tronconi di città, di cui Ermacora evidenzia il vuoto centrale "la composizione può egualmente considerarsi equilibrata, ma Mostar non lo sarà se, prioritaria mente, non ricostruirà il ponte, sostituendo alla separazione l'integrazione e la tolleranza del diverso. Il Ponte di Mostar è stato riproposto nella mostra del 2003 a Udine e in quella di Tarcento "Il silenzio di Dio". Perissinotto afferma che "il ponte di Mostar è assurto ad emblema di tolleranza etnica, religiosa, culturale " (2004, 36). Sulla stessa linea il commento di L. Damiani (2004,16) "Fasce di mattoni scheggiati, intarsi grevi di lastre metalliche, battiti di luce, abissi d'ombra, nel grande bassorilievo in ceramica e ferro di Giancarlo Ermacora dicono lo scatenarsi della violenza; sono ruderi di un dialogo spezzato". Se fosse ancora tra noi Ermacora sarebbe stato contento della ricostruzione del ponte, come simbolo di una nuova speranza di pace.
Silenzio Dio, Il Silenzio di Dio nell'arte contemporanea, 2004