Sinigallia (Periferia), dipinto, Donghi Antonio, XX

Oggetto
dipinto
Soggetto
veduta di Sinigallia
Autore
Donghi Antonio (1897/ 1963)
Cronologia
1947
Misure
cm - altezza 91, larghezza 73
Codice scheda
OA_53971
Collocazione
Trieste (TS)
Università degli Studi di Trieste
smaTs. Sistema museale dell'ateneo di Trieste. Mostra 1953-1954
Iscrizioni

Nitida veduta di una strada deserta, affiancata da ordinate casette dai delicati colori pastello, inframmezzate da alberelli le cui fronde sono puntigliosamente delineate foglia per foglia, e da un giardino recintato. Sulla sinistra, in primo piano, una fontanella pubblica.

Il Ricordo di Senigallia conservato presso il Rettorato presenta, accanto alla firma dell’artista, la datazione al 1947. Il formato quadrato e le piccole dimensioni sono ricorrenti nella pittura di Donghi soprattutto per quel che attiene ai paesaggi, urbani e non, e alle nature morte, fin dagli esordi della sua attività, ai primi anni Venti. Il Ricordo di Senigallia è solo un’impressione dei viaggi in Italia dell’artista; degli stessi anni, per esempio, sono gli scorci di Castelfranco Veneto, Pavullo, Stazzema. Impressioni, quelle di Donghi, solo in un primo tempo catturate en plein air, e molto spesso rifinite in studio, con un senso del mestiere appreso nella Roma degli anni del ritorno all’ordine e irrobustito da studi di pittura moderna italiana ed europea che il velo di naïveté o, per dirla con Gioseffi, di neo-primitivismo, non riesce sempre a dissimulare. Tale ingenuità popolare è stata apprezzata soprattutto negli ambienti più conservatori, antimodernisti della Roma degli anni Cinquanta. Le suggestioni di viaggio donghiane non sono fermate solo sulla tela, ma anche sul quaderno, tra le carte dell’artista e raccolte, qualche anno più tardi, da Leonardo Sinisgalli in Pittori che scrivono (1954). Questi documenti sono emblematici per chi voglia mettere a fuoco la figura di un pittore che, oltre che riportare sulla tela gli ultimi istanti di vita di un’Italia rurale, tenacemente ottocentesca, non mancava, nei suoi itinerari, di andare alla ricerca delle trattorie più tipiche, della buona cucina della tradizione. Tra le strade di un’Italia di provincia, aliena dalla modernizzazione e dalla speculazione edilizia degli anni Cinquanta, Donghi cancella anche la figura umana. Nella sua nitida, calligrafica inquadratura di Senigallia, case spopolate, vicoli dominati dalla solitudine: un incanto che è anche un’attesa, molto spesso amara e, come aveva scritto sempre Sinisgalli agli inizi degli anni Quaranta a proposito dei paesaggi dell’artista, l’incarnazione di “un regno che sta prossimo al sogno, alla stasi, alla morte” (Antonio Donghi, Milano, Hoepli, 1942).

BIBLIOGRAFIA

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