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La pregnanza materica del busto dell' anziana monaca, con il volto leggermente reclinato e ripreso di profilo, si concreta nei grandi occhi socchiusi, nelle labbra sottili e allungate, nell'imperiosità del naso, raggiungendo il culmine nella rappresentazione pittorica del monumentale, candido velo inamidato che copre il capo della religiosa e si chiude strettamente sul collo, terminando con il soggolo, a sottolineare la forma volitiva del mento. Un tessuto spesso di lana, reso tattile dalle larghe e corpose pennellate che indugiano, con rapidissimi tocchi di colori accesi, sul fondo senape, cinge le spalle e il petto della donna. Lo sfondo uniforme, di un bianco abbacinante, reso forse a biacca, parimenti al velo, è intaccato soltanto dall'ombra violacea che si stacca dalla spalla dell'anziana, a suggerire quasi un alter ego, conferisce al volto, simile allo studio per una testa di carattere, uno straordinario risalto scultoreo, come se si trattasse di un bassorilievo.
Probabilmente databile alla metà degli anni Venti del Novecento, il ritratto di Monaca raggiunge una consistenza materica e una solidità d'atmosfera, nella rarefazione e semplificazione dell'iconografia, attraverso l'uso di una pennellata larga e densa che costruisce i volumi per "forza di porre" ovvero per masse giustapposte. Il periodo di concezione e realizzazione del dipinto coincide in larga misura con i principali avvenimenti espositivi che coinvolgono Parin negli anni 1926-1927: l'Esposizione delle Tre Venezie a Padova, la Venticinquesima Esposizione Internazionale presso il Carnegie Institute di Pittsburgh, entrambi tenutisi nel 1926 e nel 1927, anno di morte dell'amata musa Fanny Tedeschi, a Firenze per l'Esposizione Nazionale d'arte di Palazzo Pitti. Nel dipinto si evidenziano altresì le nuove istanze del gruppo sarfattiano di Novecento, inaugurato ufficialmente in occasione della Biennale veneziana nell'edizione XIV del 1924, tanto da rendere determinante la nuova oggettualità dei volumi che la Monaca di Parin disvela, nel giustapporsi degli elementi iconografici per campiture solide e compatte. In parallelo cronologico ma contrario e opposto stilisticamente alla Monaca, è l'effigie di Aglaja Georgiadis, figlia di Giorgio Georgiadis, avvocato triestino di origini greche. Il ritratto, siglato e datato al 1926, riprende la donna, che allude al tipo della femme fatale, in un palco del teatro Verdi, lussuosamente abbigliata e con il languido dettaglio del braccio che si allunga sul parapetto, reggendo nella mano il ventaglio di piume. Il chiaroscuro insistito consente l'emersione per via luministica sia della giovane donna, i cui dettagli dell'abito serico e dei gioielli, unitamente all'ambientazione, con lo specchio luminescente e la massa vermiglia dei tendaggi, scintillano nella penombra rosacea della cavea. Il paragone fra i due ritratti sembra essere paradigmatico di una evoluzione estetica: mentre l'anonima Monaca, come già ricordato, tiene conto delle nuove istanze di piena solidità tattile dei volumi, Aglaja è ancora debitrice della sinuosa linea, di ambito monacense, che informa la sua elegante figura protesa sul palco del teatro. L'occhio dell'artista in questi precisi anni appare rivolto ai nuovi dettami "novecentisti" pur sempre contaminati, tuttavia, dall'estetica originaria della sua formazione "tedesca".
Pinacoteca Musei, Repertorio di ulteriori opere della Pinacoteca dei Musei Provinciali di Gorizia, in La Pinacoteca dei Musei Provinciali di Gorizia, Vicenza 2007
Ragazzoni C., Gino Parin, Trieste 2003, 5
Ragazzoni C., Gino Parin, Trieste 2003, 5
Simbolismo Secessione, Simbolismo Secessione. Jettmar ai confini dell’Impero, Gorizia 1992