in basso a destra: O. ROSAI
sul retro, a sinistra sull'intelaiatura in senso verticale: CASE DEL PARADISO
sul retro, sulla cornice in più punti: 050 G
sul retro, in alto a sinistra sulla cornice, in posizione contraria: MOD. 055/ MODERNA
L'essenziale scorcio di paese mostra una strada che curva verso destra, fiancheggiata da muri di cinta e case prive di finestre. Oltre il muro, sulla destra, le chiome verde scuro di due alberi si stagliano sul cielo azzurro chiaro.
Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1974), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico).
Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile a Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, in una mostra inaugurata il 31 ottobre.
Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari.
L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio (1953) indica come “recentissima” e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” - “muro” - “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (cfr in Omaggio a Ottone, 1980).
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