sulla spalla sinistra: UGO CARÀ
La giovane donna ritratta ha il volto incorniciato da capelli mossi, lunghi fino alle spalle e indossa una camicia con colletto tondo.
Il busto è stato donato all’Ateneo nel 2017 da Adriana Maria Antonietta Belrosso, e secondo la donatrice rappresenterebbe la madre. Come per la testa di Enrico Nordio, anche per l’opera in esame non si hanno notizie di una sua presentazione a un’esposizione ufficiale, come del resto era avvenuto per altre prove della copiosa produzione ritrattista messa in atto da Carà negli anni trenta. Il bronzo è infatti collocabile intorno alla fine del decennio e allarga, insieme ad altre prove più note, la gamma tipologica messa in campo dall’artista, che negli anni precedenti aveva preferito concentrarsi sulle teste. Il busto tagliato nettamente e trasversalmente appena sotto le spalle sembra trovare in Carà una declinazione ben lontana dall’immobilità celebrativa, quasi da effigie sacra, che aveva caratterizzato nel decennio precedente i busti di Adolfo Wildt, il primo nel dopoguerra a recupere in chiave simbolista quella tipologia. Lo scultore muggesano sembra infatti andare oltre e guardare piuttosto ai prototipi quattrocenteschi di Francesco Laurana, senza però cedere a tentazioni naturalistiche. Un affinamento della tecnica lo porterà, come ricordava Umbro Apollonio, ad accentuare la ricerca di «sintesi, sino a cogliere una particolare linearità» (U. Apollonio, Ugo Carà, Fiume, Termini, 1938, p. 34) attraverso l’eliminazione del superfluo. Su questa linea anche Silvio Benco, che notava come i ritratti di Carà fossero «l’espressione d’uno squisito senso analitico della struttura: di qui il segreto della loro unità plastica, del nascere dei lineamenti dalla forma generale, del comunicarsi anche la vita interiore mercè la sobria aderenza allo strutturale» (S. Benco, Presentazione, in Ugo Carà, catalogo della mostra, Milano, Galleria Gian Ferrari, 1941).
Un busto femminile in pietra riprodotto nell’articolo apparso nel 1940 sulle prestigiose pagine di “Domus” (Ritratti di Ugo Carà, “Domus”, 146, febbraio 1940, p. 45), testimonia di quanto questa severità fosse efficace nel proporre quella sorta di classicismo abbreviato diventato in quegli anni il suo marchio di fabbrica. Rispetto all’opera appena citata, quella in esame si caratterizza per una linea più melodica, ingentilita da una modellazione meno severa, più vicina al Ritratto della signora Metzger, datato 1940 e noto nella sua redazione in gesso (cfr. L. Michelli, Ugo Carà, artista e maestro di stile, in Ugo Carà: arte architettura design 1926-1963, catalogo della mostra di Trieste a cura di M. Masau Dan, L. Michelli, Trieste, Civico Museo Revoltella, 2003, p. 52). Per queste opere vale in parte l’analisi di Sergio Molesi, che vedeva una certa distanza tra ritratti maschili e femminili: «si veda, nei busti, all’interno della comune disciplina formale, il confronto tra la grazia sensitiva e birichina dei soggetti femminili e la pregnanza psicologica dei ritratti d’artista» (S. Molesi, Ugo Carà, catalogo della mostra di Palazzo Costanzi, Trieste, Comune di Trieste - Civico Museo Revoltella, 1982). Considerazione che però nulla tolgono all’efficacia del busto già della famiglia Belrosso, che rimane tra i raggiungimenti più alti della ritrattistica di quegli anni.
De Grassi, Massimo, Schede, in "Ricorda e Splendi". Catalogo delle opere d'arte dell'Università degli Studi di Trieste, Trieste 2024