Il Carnevale attraverso le maschere rituali
Numerose testimonianze conservate nei musei confermano la pratica popolare del travestimento durante il Carnevale
Mascherare il volto e il corpo significa perdere la propria individualità per assumere un ruolo diverso, a volte portatore di nuove qualità e poteri superiori. Il travestimento e la trasformazione fanno parte di una ritualità antichissima, legata al ciclo della natura, alla rigenerazione e all’affermazione dell’uomo sulle forze negative. Le maschere risentono di questo retaggio antico e concedono all’uomo nel Carnevale la possibilità di uscire dalla quotidianità, fatta di fatiche, lavoro e regole sociali, per interpretare un personaggio simbolo legato all’immaginario di un popolo. Per questo le maschere si differenziano anche in base al luogo d’origine.
Le maschere del Museo etnografico Mario Ruttar a Grimacco risalgono alla metà del XX e sono in latta, ricavate dal riutilizzo dell'alluminio delle gavette militari: questo materiale si riscontra soltanto nelle maschere della zona slava. Quelle del Museo dell'arte e civiltà contadina di Andreis, della prima metà del XX secolo, hanno barba e capelli posticci, realizzati con fibre vegetali e fosse oculari dipinte di nero per accrescere l’espressività. La collezione più ricca è certo quella del Museo carnico delle arti popolari “Michele Gortani” di Tolmezzo: oltre una cinquantina le maschere realizzate tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e raccolte nelle vallate della Carnia da Michele Gortani e dall’amico pittore Giovanni Napoleone Pellis.
Una visione generale di queste maschere permette di individuare caratteristiche comuni. Tutte, anche quelle di dimensioni maggiori, dovevano essere indossate e quindi la loro parte interna è modellata e curata: portate sul viso e non solo avvicinate, con l’aggiunta di fazzoletti, parrucche, cappelli e vesti celavano completamente la persona che doveva rimanere misteriosa. La loro fabbricazione era curata e si utilizzavano i materiali locali e di facile reperimento come il legno. Mancano figure zoomorfe e i soggetti rappresentati sono evocativi, uomini buffi, sfortunati, brutti e rozzi, ma mai spaventosi: anche le maschere dei diavoli di Tolmezzo hanno un’espressione più dispettosa che terrificante.
La modellazione della materia deforma o enfatizza i tratti somatici, accentuati dall’uso innaturale del colore. Sono rimarcati dei difetti: le rughe, le dimensioni del naso, il mento aguzzo. La bocca, il cerchio degli occhi, le sopracciglia vengono pesantemente colorati con tratti rossi o neri. Si disegnano o incidono i baffi e la barba. Si ironizza sui malanni: il mal di denti che ingrossa la guancia, i denti caduti, il gozzo.
Ogni maschera è un personaggio simbolo individuabile, più che dalle parole, dalla foggia, dai gesti e dall’andatura; un corteo di sostenitori ne riconosceva il ruolo e ne sosteneva l’identità.
M. GORTANI, L'arte popolare in Carnia. Il Museo Carnico delle arti e tradizioni popolari, Udine, 1965.
O. PELLIS, A. NICOLOSO CICERI, Feste tradizionali in Friuli, Reana del Rojale, 1987.