Canopi e ushabti dall'antico Egitto

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Canopi e ushabti dall'antico Egitto

Sin dalla sua fondazione, nel 1874, il Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste ha riunito una grande collezione di reperti archeologici - oltre mille - provenienti dall'antico Egitto, collocandosi tra le prime raccolte in Italia dopo quelle di Torino, Firenze, Napoli e Bologna.
Una recente campagna di catalogazione ha permesso di acquisire nella banca-dati SIRPAC un nucleo consistente e rappresentativo di questa collezione, composto da 170 ushabti e da una serie completa di quattro vasi canopi.

Gli ushabti sono statuine che facevano parte del corredo funerario degli antichi Egizi. Realizzati in materiali diversi (ad esempio, legno, terracotta, faïence e bronzo), hanno dimensioni che variano dai pochi centimetri fino a quasi mezzo metro di altezza.

Il loro uso fu introdotto alla fine del Medio Regno (all’incirca nella prima metà del II millennio a.C.), allo scopo di servire il defunto durante la sua vita nell’aldilà, e proseguì per tutto il resto dell’epoca faraonica, fino all’Epoca Tolemaica (quindi, almeno fino al I secolo a.C.) con un leggero mutamento di significato: gli ushabti diventano, infatti, dei veri e propri sostituti del defunto, grazie all’elaborazione della formula che spesso vi compare iscritta, vale a dire il capitolo 6 del Libro dei Morti. 
Questa formula magica serviva a “risvegliare” la statuina e a far sì che essa si recasse a lavorare al posto del suo proprietario (il cui nome doveva essere iscritto assieme alla formula). Gli antichi Egizi credevano, infatti, che nei “Campi di Iaru” (il paradiso), tutti – dal faraone all’ultimo dei servi – avrebbero dovuto lavorare nei campi, e possedere degli ushabti era un modo per evitarlo.

Le caratteristiche di queste statuine cambiano nel tempo: i primi esemplari, spesso singoli, sono di grandi dimensioni e scolpiti in legno e poi dipinti, quasi come delle statue vere e proprie. Con il Nuovo Regno (1543-1078 a.C.) le dimensioni si riducono a circa 20-25 cm e l’accuratezza dei dettagli non è sempre garantita; inoltre, l'iscrizione che li accompagnava poteva limitarsi al nome, al matronimico e ai titoli del defunto. Il loro numero sale gradualmente fino a 401 esemplari: uno per ogni giorno dell’anno (che nell’antico Egitto era di 365 giorni) più 36 capisquadra (un caposquadra ogni 10 ushabti).
A partire dalla XXI dinastia (1078-945 a.C.), gli ushabti sono alti 10-15 cm e sono quasi esclusivamente prodotti in faïence; durante l’Epoca Tarda (dal 672 al 332 a.C.) le dimensioni si riducono ulteriormente e la qualità può variare moltissimo: esistono esemplari con un’eccezionale qualità di esecuzione dei dettagli, risalenti alla XXVI dinastia (664-525 a.C.), e ushabti molto semplificati e in argilla cruda. 

I vasi canopi facevano parte del corredo funerario antico-egiziano, in serie di quattro, sin dall’Antico Regno (metà III millennio a.C.) e servivano per contenere i visceri imbalsamati del defunto (polmoni, fegato, stomaco ed intestini).

L’evoluzione della forma del vaso, nonostante il lunghissimo periodo in cui furono in uso (circa due millenni), non è particolarmente significativa, soprattutto in considerazione dell’esistenza contemporanea di varianti locali, mentre quella dei coperchi offre un inquadramento più preciso: fino alla fine del Medio Regno essi erano costituiti da semplici ciotole rovesciate, per poi passare a raffigurare il defunto fino a tutta la XVIII dinastia (notissimi sono i vasi canopi del faraone Tutankhamon, appartenenti a questo tipo e in finissimo alabastro).

Con la XIX dinastia (1292-1186 a.C.) i coperchi si differenziano, fino ad arrivare alla canonica raffigurazione dei geni funerari chiamati “Figli di Horo”, protettori dei punti cardinali. Si tratta del babbuino Hapi, dello sciacallo Duamutef, del falco Qebehsenuf e dell’uomo Amseti. Anche la formula magica con cui ciascun vaso è iscritto cambia di conseguenza: il contenuto di ciascun vaso è ora associato ed identificato con il genio funerario corrispondente, e su di esso è invocata la protezione di alcune divinità femminili (Iside, Nefti, Selkis e Neith). Il materiale più comune è l’alabastro egiziano, una forma di calcite, ma se ne conoscono anche in terracotta (specialmente gli esemplari più antichi) e in calcare.

Se gli ushabti del Museo civico di Storia e Arte di Trieste abbracciano tutta l’evoluzione tipologica dal Nuovo Regno all’Epoca Tolemaica, con esemplari anche di finissima fattura, il set di vasi canopi è precisamente attribuibile alla XXVI dinastia per motivi stilistici, iconografici ed epigrafici, costituendo uno tra gli esempi più raffinati conosciuti.

Per approfondire: Collezione egizia del Civico Museo di Storia ed arte di Trieste, a cura di F. CREVATIN, M. VIDULLI TORLO, Trieste 2013.